La porta verde di legno scrostato

Il corridoio era stretto e lungo, illuminato da una fredda luce al neon. La porta di legno tinta di un verde scrostato era socchiusa. La stanza, aperta come una mela sbucciata, era vuota al suo interno. In fila davanti a quella striscia aperta sul nulla c’era una fila di uomini e donne. Vocianti.

Filippo si mise in fila in silenzio senza chiedere chi fosse l’ultimo. Una donna robusta, con i lunghi capelli ricci stirati e stretti in una lunga coda, arrivò dietro di lui. “Chi è l’ultimo?” e lui alzò il dito lentamente e abbassando la testa. La donna si avvicinò e alzando la voce chiese, a conferma: “E’ lei l’ultimo?”.

Filippo alzò lo sguardo, socchiuse gli occhi e la fissò, con una nota di fastidio. Annuì e si girò.

Ma l’alito della donna arrivò al suo naso con un afrore di alcol mescolato allo sporco incrostato degli abiti che indossava. Gli sfuggì un ghigno di fastidio ma si vergognò della sua reazione. Si girò e le sorrise. La donna, però, si era girata a chiacchierare con altre due arrivate da qualche secondo.

La fila ormai si era allungata. Due ragazze si avvicinarono ai loro genitori e chiesero se le prof fossero arrivate.

Una mamma dai corti capelli biondi e dal seno impettito rispose ironicamente alla figlia alta e allampanata: “Eh, quando arrivate voi in ritardo scatta la nota. Quando arrivano loro l’orario diventa flessibile… no?” E stirò un sorriso storto guardando un’altra mamma, dal maglione rosso e dai jeans neri attillati, mollemente appoggiata al muro giallo, che le sorrise compiacente di rimando.

Fu in quel momento che Filippo la vide, proprio nell’attimo in cui una ragazzina secca e dai folti capelli ricci neri gli pestò un piede correndo. La prima cosa che lo colpì fu lo sguardo triste dell’uomo che la accompagnava. Gli occhi di quell’uomo erano spalancati, le iridi tonde, il passo lento e pesante. La teneva per mano, con delicatezza, quasi avesse paura si rompesse. Ma ogni passo era faticoso, quasi disperato. Ogni tanto abbassava lo sguardo sul pavimento di marmo grigio reso opaco dal tempo e dai tanti detersivi strofinati. Scuoteva la testa.

Poi Filippo la guardò e un brivido gelido salì lungo la schiena. Vide i larghi stivali in cui due gambette magre parevano fossero infilate per fare uno scherzo. Le spesse calze nere coprivano quel mucchietto di ossa. Il suo sguardo risalì al viso. La bellezza di un tempo non c’era più. Morta. La pelle era raggrinzita, verdastra, il viso smunto. Gli occhi erano neri come il carbone, ma ridotti a due piccole fessure che trasudavano dolore ad ogni passo. Un largo impermeabile le copriva il corpo. Filippo evitò di guardare nell’apertura tra i bottoni slacciati.

Si chiese cosa le fosse successo. Fu attratto dai riflessi dorati nei suoi capelli. Quei capelli che aveva sfiorato per tre anni, seduto nel banco dietro il suo. Quella luce gli parve innaturale e vi fissò lo sguardo. Restò impietrito nel notare l’attaccatura marrone della parrucca. Erano lunghi capelli biondi. Ma non erano più i suoi. Ebbe la certezza che il dolore fosse autentico, profondo, devastante.

Il suo accompagnatore incrociò gli occhi con quelli di Filippo che, dopo quello sguardo addolorato, intuì la fine imminente.

Il respiro di Filippo si sospese. I rumori cessarono e un silenzio profondo invase le sue orecchie. Si guardò intorno e vide le bocche delle persone che continuavano a muoversi ma lui non sentiva nulla. Percepì invece un sospiro profondo, e ebbe la sensazione che l’aria venisse risucchiata via aumentando la pressione che batteva sui suoi timpani, percuotendo, spingendo, lacerando. Portò le mani alle orecchie nel disperato tentativo di proteggerle.

Chiuse gli occhi.

Si ritrovò in un’aula scalcinata con i muri marroni e larghe macchie di umido nero sul soffitto. Nella stanza ci sono una serie di file di banchi. Ragazzi e ragazze che ridono, chiacchierano mentre una giovane insegnante siede dietro la cattedra aperta con le gambe accavallate. Nella prima fila di banchi un paio di ragazzi guardano le sue lunghe gambe. Filippo, invece, guarda nella fila davanti la sua. Guarda una ragazza magra dai lunghi capelli biondi. Le spia i jeans a vita bassa, sospirando l’attimo in cui la maglietta si alza mostrando, finalmente!, il nylon dei collant color carne che Marilena alza fin quasi all’ombelico. Sente la sua voce che chiama: “Marilena!” e la vede girarsi verso di lui, gli occhi neri al centro di un paio di occhiali tondi dalla montatura di metallo rosso un po’ scrostato. Nel girarsi Filippo abbassa lo sguardo sul suo seno teso, che intuisce sotto la maglietta bianca, libero da qualsiasi costrizione perché i capezzoli sono dritti e puntano il futuro allegri e disinvolti.

Il vociare rimbalzò di nuovo nelle sue orecchie. Aprì gli occhi e sentì una voce: “tocca a lei… Signore! Tocca a lei!… Insomma! Che fa? Entra oppure no?… ma guarda questo…”

Filippo guardava davanti a sé e vide le labbra della donna bionda dai capelli corti muoversi.

Scosse la testa. Si passò le mani sul viso, sollevando gli occhiali. Sentì il bagnato caldo delle lacrime. Si asciugò. Guardò la bionda impettita e annuì verso di lei. Si costrinse a muoversi verso la porta verde di legno scrostato. Si fermò, prima di oltrepassarla, e guardò verso Marilena. La fissò. In fondo al corridoio lei si girò, lo riconobbe e gli sorrise, molto lentamente, restituendo il suo sguardo. Fu un attimo.

Poi il dolore ebbe il sopravvento.

 

 

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