Il tarabuso

L’alba apparve nel cielo, all’improvviso. Le linee increspate delle montagne si iniziarono a indovinare nel buio lacerato. Albert era dietro la finestra, con le braccia strette sul petto. Osservava il cielo, lo sguardo che inseguiva un filo interiore, qualcosa di strappato. Il silenzio intorno alla casa era totale, persino l’acqua del lago era immobile, quasi aspettasse trattenendo il fiato il sorgere del nuovo giorno. Nel bosco, ancora immerso nel sonno notturno, la rugiada bagnava le foglie degli alberi e la terra nera profumava di humus. Se qualcuno avesse aspirato l’aria fredda del mattino a pieni polmoni avrebbe confuso l’odore delle foglie bagnate con il profumo dei funghi cresciuti sotto i larghi tronchi dopo la pioggia della sera precedente.

Walter era rimasto in piedi, immobile in quella posizione, tutta la notte. Domande rimbombavano nelle sue orecchie, assorbivano ogni energia, bevevano qualsiasi pensiero. Ma non trovava nessuna risposta convincente. Riusciva solo a registrare una vaga stanchezza, le gambe indurite dalla posizione, un crescente crampo lungo la schiena.

Il colore del cielo iniziava a schiarirsi e un delicato color pesca sorgeva lungo la cresta delle montagne intorno al lago. Iniziava ad amare quel posto. Sentiva crescere dentro di sé uno struggimento che non provava da molto tempo e che strappava con violenza la corazza che si era costruito negli anni. Aveva difficoltà a dargli una identità, a incastonarlo come un pezzo di un puzzle, nel quadro della sua vita. Dentro di sé, però, sapeva a cosa corrispondeva quel languore che gli pervadeva tutto il corpo, che scioglieva la rigidità dei nervi, che aveva allontanato con delicatezza i tic nervosi che gli squassavano il corpo durante le giornate trascorse dietro una scrivania a ritrovare la catena delle parole che ormai sentiva lontane da sé e che, invece, doveva necessariamente rimettere in fila sullo schermo del macbook. L’avrebbe chiamato “casa”.

Nel bosco i primi passeri cinguettarono il saluto al sole. Era un suono saltuario, disordinato, che giungeva alle sue orecchie da punti lontani, intorno ai sentieri. Era un risveglio dolce, che presto si sarebbe trasformato in un canto forte, intenso che avrebbe coinvolto tutto il bosco, risvegliando anche gli alberi e tutta la fauna del bosco. Walter immaginava che solo il cane avrebbe continuato a dormire, probabilmente infilando la testa e le orecchie sotto le zampe nel tentativo disperato di mitigare quello che si sarebbe trasformato in un frastuono gioioso.

L’uomo abbassò la testa, la ruotò delicatamente facendo scrocchiare le vertebre del collo. E poi, finalmente, si abbandonò sulla sedia, poggiando le mani sul tavolo sotto la finestra. Continuò a guardare il quadro della natura dietro i vetri, i colori pastello del cielo, la luce che iniziava a illuminare le cime verdi, a tinteggiare di rosa le nuvole in fondo al blu scuro.

E fu in quel momento, nel silenzio rotto dai cinguettii, proprio mentre un solitario tarabuso lanciava il suo grido morbido, che Walter afferrò con una mano il suo moleskine e lo aprì con un gesto lento, come fosse l’avvio di un rituale. Si guardò intorno, annuì leggermente, prese una delle matite gialle messe infila ordinata sul tavolo e ne controllò la punta. E poi iniziò a scrivere, la punta della lingua che spuntava tra le labbra; come un bambino che cerca di copiare le prime lettere dell’alfabeto che la maestra, dal lungo vestito verde e dai lunghi capelli raccolti, ha appena scritto con il gesso bianco sulla lavagna di ardesia nera.

A casa. Si sentì definitivamente a casa. Un sorriso sottile apparve sulle sue labbra e si immerse nel foglio giallastro del taccuino. 

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