La finestra è chiusa. Oltre c’è un mondo disarticolato, spezzato in mille gocce che l’acqua ha battuto sul vetro. Il vento soffia forte, lo sento dal furioso vibrare delle persiane. Non riesco a vedere le cime degli alberi che ondeggiano nel vuoto. Il buio della sera ingoia tutto. Solo qualche sporadico lampione arancione getta una confusa penombra che rende tutto inquietante.
Io sono qui, dietro questo vetro. Osservo il buio, ascolto il soffio nelle fessure del legno, guardo la vita che scorre pigra nel mio quartiere, periferia abbandonata di una piccola città di provincia.
Il battito del cuore rimbomba nel silenzio che mi circonda. Inspiro a fondo, fisso il cielo cercando di individuare qualche nuvola bianca nel cielo, ma è tutto una massa nera che schiaccia e opprime. Non ho la profondità, non mi resta che attendere. Il mio cuore batte veloce, mi assale un’ansia che schiaccia lo sterno.
I pensieri corrono, si inseguono, si scontrano e si ammucchiano come se precipitassero in un burrone. Mi torna in mente un sogno che mi faceva svegliare all’improvviso di notte quando ero bambino. Sognavo di precipitare in un buco lungo e ondulato le cui pareti erano fatte di sabbia finissima. Una lunga caduta senza fine da cui sapevo non sarei mai più potuto risalire. Perché era sabbia e anche se ero molto piccolo sapevo che la sabbia non consente nessuna presa. Mi svegliavo in silenzio, saltando sul letto con gli occhi spalancati, ma intorno a me era tutto buio. Era un sogno o era realtà. Dopo qualche secondo però il vecchio orologio a pendolo, che mio padre appendeva in tutte le case doveva avevamo abitato nel corridoio un po’ distante dalla porta di ingresso nella casa, rompeva il silenzio della paura e batteva tranquillo, inesorabile, il passare dei secondi. Mi calmavo, non del tutto però. La notte, e il suo opprimente vuoto di rumori, veniva spezzata dalla luce dei fanali di una rara macchina che transitava giù nella strada. Solo allora ero sicuro che fosse stato solo un incubo e tornavo a sdraiarmi nel letto sollevando il lenzuolo sopra le orecchie.
I pensieri corrono, si affollano confusi e non riesco a metterli in fila. Non riesco a capire cosa mi vogliano urlare, dire, sussurrare. Non riesco ad ascoltarli. Chiudo gli occhi, inspiro piano cercando di governare il battito del cuore. Non ci riesco.
Le gocce riprendono a cadere sul vetro. Battono con forza, è un tamburellare ritmico. Sono colpi veloci, la goccia resta ferma un attimo per poi rompersi, scivolare lentamente e poi andare giù sempre più veloce. Dopo qualche minuto il vetro è uno smeriglio di colori, la poca luce dei lampioni arancioni prende forza, diventa vivida in quelle strisce di acqua. Ma non vedo più nulla. Non è più buio, ma è un mondo deformato, scheggiato, dalle forme strane e illogiche.
Come i miei pensieri. Il tempo va avanti, indifferente a tutto. La natura vive, semplicemente vive, si difende e si rigenera in un cerchio perfetto. Come è perfetta la forma della goccia, un attimo prima di frantumarsi, scivolare e poi morire mescolandosi nella terra in cui cadrà. E’ la vita. Tutto si crea, si forma, si modifica. Diventa altro. Nulla muore, nulla scompare senza lasciare traccia.
Apro la finestra, un soffio di vento tiepido mi schiaffeggia il viso. La pioggia mi bagna le lenti e la pelle. Lascio scivolare il braccio sul vetro, lo asciugo e poi richiudo. Il mondo buio, oltre la finestra, è una serie di strisce parallele. Ma le gocce di pioggia si riprendono presto il loro spazio. Nel silenzio ritmico e pulsante della natura.