E’ lì, davanti a me. Il centro del problema è lì. Ci posso girare in tondo quanto voglio, ma è lì. Lo scrivo sull’iphone. Due righe: “Non ne posso più di questa vita. Voglio altro.” Le guardo. Due piccole righe, intervallate da un invio a capo per sottolineare l’importanza della seconda frase. Il concetto è chiaro. E’ nero su una nuvola bianca.
Il pensiero corre lontano nel tempo, a tanti anni prima. Rivedo un pullman blu pieno di ragazzini. Fuori è buio, la strada corre nera sotto i fari gialli del mezzo. La mezzeria scivola frantumata e scheggiata sotto gli occhi di un ragazzo. Alza lo sguardo e intorno a lui vede un nugolo di ragazzine e ragazzini vocianti. Osserva le loro bocche aperte; intuisce, sotto le magliette bianche delle ragazze, piccole protuberanze. Avverte un turbamento nell’inguine, ancora non ne conosce il motivo, non sa che quel movimento condizionerà il suo futuro, la sua vita. La vede due file di sedili più avanti: è snella, alta, i lunghi capelli neri, la frangetta che le copre la fronte, i grandi occhi neri tristi che fissano qualcosa nel nero oltre i vetri. Inconsapevole si disegna sul volto del ragazzo un sorriso, avverte un turbamento ancora più intenso, quasi alle soglie del dolore. Poggia il viso sulla mano e con un gesto automatico si alza su polso il bordo del maglione rosso che, troppo lungo, si era allungato coprendola. Lo sguardo resta fisso su di lei. Evidentemente è troppo intenso, troppo fisso, troppo serio. Lei lo avverte. Si gira, lentamente, verso quella cosa che lei avverte su di sé. Gli occhi si incrociano. Lui sbanda, un attimo, e gira subito lo sguardo via. Sente le guance arrossarsi per l’imbarazzo. Ma il desiderio di lei è troppo forte e dopo qualche minuto si gira nuovamente verso la ragazzina. E lei è lì, ancora girata verso di lui. Ora un impercettibile sorriso le stira le labbra. Lui resta incantato. Sa di essere diventato viola, ma ora non gli importa più. Si perde in quei grandi occhi neri, nei suoi lunghi capelli. Una domanda si insinua in quel momento di estasi nella sua mente: gli occhi, i suoi grandi occhi scuri, restano distanti. Sono incuriositi dal ragazzo, questo lui lo capisce, m restano distanti, tristi. Di una tristezza profonda, quasi indissolubile.
Quella domanda è rimasta dentro di me per lunghi, lunghissimi, anni. Perché, pur sorridendomi, quegli occhi erano tristi? Poggio l’iphone sul tavolino scrostato davanti a me. Prendo, con entrambe le mani, un mucchietto di foto. Sono vecchie, i colori sbiaditi. Sono foto che raccontano una vita, la mia. Ma sembrano momenti della vita di un’altra persona, sconosciuta. Le scorro, una dopo l’altra; sono in divisa militare, i lunghi e ribelli capelli che mi coprono la fronte, lo sguardo divertito in posa davanti alla macchina fotografica; il primo giorno di quinta elementare, un bambino impettito con una borsa da uomo di pelle nera che, troppo grande per lui, il padre gli ha imposto. La guardo con attenzione e sorrido nel rivedere lo sguardo arrabbiato di quel bambino, costretto in un vestito con la cravatta a soli dieci anni. Ricorda il sogno di un paio di jeans che vedrà solo molti anni dopo e che comprerà con un gesto di ribellione che gli procurerà una minaccia di una bottigliata in testa. Ma la spunterà.
Poi, tra le mani, all’improvviso mi rivedo in quel pullman blu. Il maglione rosso, i capelli lunghi sul collo, il viso sulla mano. Intorno a quel ragazzo ci sono altri ragazzi e ragazze che urlano. Lui, invece, ha lo sguardo fisso sul finestrino, ad osservare la notte che scorre via. In quel nero tufferà la sua solitudine, la sua tristezza, quel sorriso che l’ha catturato per pochi secondi e che poi perderà. Per sempre.
Poggio le foto sul tavolino e mi lascio andare sul divano. Riprendo l’iphone. Sospiro. Sento l’aria che scende nei polmoni, il diaframma che si distende. Sento il silenzio intorno. Il silenzio della solitudine. Guardo lo schermo. Rileggo le due righe. Sono ancora lì, sospese.
Senza risposta.
Nota dell’autore: Tutti i racconti sono, ovviamente, inventati e non hanno alcun riferimento diretto alla realtà, anche se ne traggono ispirazione. Queste storie vogliono solo raccontare momenti, spezzoni di vita, attimi. Non hanno un senso compiuto ma vogliono solo mettere in evidenza delle emozioni; quelle che ognuno di noi vive quotidianamente e che, talvolta, non si ha il coraggio di guardare in faccia, di afferrare con la giusta concentrazione. Sono solo attimi. Attimi di vita. Inventati. E non dimenticherò mai chi mi ha dato, alcuni anni fa, la forza di provare a scriverli.