La rabbia e la primavera

“Le tue scelte sono dettate dalla rabbia”.

Smisi di ruotare il cucchiaino nel caffè. Le onde del liquido nero continuarono a muoversi. Restai ad osservare il ruotare lento nella tazzina bianca. Alzai la testa solo nel momento in cui la calma era tornata nella ceramica calda. Le onde del fumo caldo continuavano a salire, nell’aria fredda del mattino di fine marzo.

Fissai lo sguardo dritto nei suoi occhi. Il nero lucido dei suoi occhi. Le palpebre truccate di un azzurro intenso, il fard scuro steso sugli zigomi, le labbra rosse, i capelli ricci con colpi rossi sulle ciocche.

La guardai, indagando su quel volto, più volte. Mi chiesi se fosse stata lei a parlare. Mi guardai anche intorno alla ricerca di un’altra voce, nella vana speranza che quella frase fosse uscita da qualche persone seduta in un tavolino vicino, o magari da qualche registrazione whatsapp di un cellulare.

Ma intorno a noi non c’era nessuno. Il bar era deserto, erano gli ultimi minuti prima che scattasse l’orario di entrata nelle scuole e nei posti di lavoro. Era una mattina di fine marzo e il cielo era dipinto di quell’azzurro acceso che apre le strade della città all’arrivo delle rondini e dei loro stridii acuti e il rincorrersi tra i muri dei palazzi nelle strade strette, rimbalzando sui muri dorati dal sole dell’inizio primavera.

Tornai nei suoi occhi. Annuii stancamente. Lei afferrò una fetta biscottata e iniziò a spalmarla con la marmellata di arance amare prodotta dalla proprietaria del locale. “Che hai detto?” le chiesi finalmente dopo un momento di incertezza.

“Che le tue scelte sono state dettate dalla rabbia”

La rabbia. Quell’onda acida che mi stava salendo nello stomaco e che bruciava le sue pareti togliendomi il respiro. Iniziai a tossire. Riposi sul piattino la tazza del caffè un attimo prima che mi si versasse sui pantaloni. Lei restò con la mano sospesa nell’aria, il coltello impugnato storto, la punta colma del gel giallo della marmellata.

“Tutto bene?

Inspirai con forza e dentro di me pensavo “tutto bene????”. Presi il tovagliolo di carta e mi pulii la bocca dalle parole che stavano per uscire. Le tirai via con forza, cancellandole. Mentre lo poggiavo vicino alla tazzina guardai la forma di quelle parole, il loro colore sbavato ma erano trasparenti, invisibili.

Allungai la mano sotto il tavolino e sfiorai il suo ginocchio. Sentii sotto le dita il nylon ruvido. Aprii la mano e le strinsi una coscia. La carne era solida, ampia, allungava il tessuto. Era lei.

La rabbia si insinuò nelle mie mani e strinsi la sua carne. Un lampo passò nel suo sguardo e un leggero sorriso le increspò le labbra. “Ehi!”. Solo quell’”ehi”.

Stavamo insieme da sette anni. Avevamo deciso di non vivere insieme e abitavamo distanti l’uno dall’altra. In realtà stavamo sempre insieme. Anche le notti le passavamo insieme. Ogni notte facevamo l’amore ma subito dopo ognuno andava in un’altra stanza. Le case in cui vivevamo avevano due stanze da letto, una per lei e l’altra per me. Anche i bagni erano due, uno per lei e un’altro per me. Separati. La colazione ogni mattina la facevamo in quel bar prima di andare al lavoro. Ci incontravamo lì, mezz’ora prima dell’orario di ingresso. Sì, lavoravamo anche vicini. A pranzo ognuno andava per conto suo. Avevamo passioni e impegni in comune, ma vissuti separatamente. Al mattino, ogni giorno, si sorprendeva della velocità con cui leggevo i quotidiani. La sua espressione era un misto di stupore e di ammirazione. Lei lo leggeva la sera, dopo cena e subito prima di chiudersi nella sua camera per truccarsi, infilarsi un tanga, un negligé e un paio di collant per poi farmi entrare, farsi accarezzare a lungo, lasciare che la spogliassi, la leccassi e poi lasciarsi penetrare. Ma nel momento in cui sprofondavo nei suoi occhi spalancati avevo la chiara sensazione ad essere io penetrato da lei. Ogni sera era così. Subito dopo, un bacio, due carezze e ognuno rientrava nella propria stanza.

Sette anni di questa vita intensa, fatta di sesso, di chiacchiere, di scambi, di qualche discussione.

Non avevo mai smesso di amarla come il primo giorno. E lei di amare me.

“La mia rabbia?” le chiesi. Lei annuì, concentrata a spalmare la marmellata con delicatezza per evitare che la fetta biscottata si spezzasse. “Ma perché non mangi un cornetto caldo?” le chiesi, spazientito da quella contraddizione: mangiare al bar una fetta biscottata e bere un succo industriale d’arancia. Guardai sconsolato il mio caffè ormai freddo e il cornetto smozzicato. La fame mi era passata.

Lei continuò ad annuire. Le avrei voluto gridare “ma che cazzo annuisci? Spiegami!”

“Noi stiamo insieme da sette anni e tu mi parli della rabbia?” le dissi, invece.

Con la punta del coltello profilava la gelatina sul bordo eliminando le sbavature, con attenzione e sempre con una smorfia serena di concentrazione. Le palpebre abbassate mettevano in evidenza l’azzurro vistoso dell’ombretto.

Versò l’acqua bollente nella tazza di ceramica bianca in cui aveva depositato la bustina del thè.

Si tinse di un leggero arancione. Prese la striscia di carta che reggeva il filo e scosse su e giù la bustina. Scossi la testa perplesso. Non sopportavo chi aveva fretta nel lasciare in infusione le foglie di thè nell’acqua. Si alterava il sapore ed era un gesto che non comprendevo. Amavo, invece, la cerimonia lenta e pensosa della sua preparazione. Tolse la bustina dall’acqua e la poggiò su un piattino vuoto. Iniziò subito a sorseggiare la bevanda mentre con l’altra mano reggeva la fetta biscottata perfettamente spalmata della marmellata gialla. Ne intuivo le strisce delle bucce amare e la saliva riempì la mia bocca. Avevo fame e guardai sconsolato il mio cornetto ormai freddo, così come il caffè.

Una mano si poggiò sulla mia spalla. Saltai sorpreso sulla sedia e mi girai a guardare. Era la signora del bar, uno stecco lungo, ossuto e dalla pelle increspata con un largo sorriso sulle labbra. “Dotto’, il caffè si è freddato. Gliene faccio un altro?” Le sorrisi e annuii. “Magari anche un cornetto caldo, le va?” mi disse piegando leggermente la testa e socchiudendo gli occhi in un gesto che ormai mi era consueto.

“Sì, grazie. Lei è sempre così gentile”.

Con lo stesso sorriso stirato sulle labbra sottili si girò portando via sia la tazzina del caffè che il piattino con il cornetto smozzicato.

M. mi guardava continuando a bere il suo thè, la fetta biscottata ancora integra nella mano.

Mi piegai verso di lei, la mia mano sotto il tavolino risalì lungo la sua gamba. Era un’ancora. Il contatto con il suo corpo mi instillava le ragioni per non alzarmi e andare via da lei, dal bar, da tutto quello che avevo intorno a me.

Lei sorrise, lentamente, e finalmente dette un morso alla fetta. Sentii il croc del morso, vidi le briciole cadere sulla tovaglia giallina. Una goccia di marmellata rimase sul labbro. Allungai la mano, le pulii il labbro e portai quella goccia sulla mia lingua.

Lei sorrise.

“Sì, secondo me tu sei divorato dalla rabbia. Una rabbia cieca che non ti sta facendo vedere nulla. Hai perso il buon senso, la tua razionalità”

Percepii il colpo basso, ne saggiai la violenza fisica e un dolore cieco si irradiò nel mio corpo. Era una sensazione violenta che mi provocò un attacco di nausea.

Chi era quella donna che avevo di fronte? Lei era parte di quella scelta, ne rappresentava la ragione principale. Invece capii, in quel preciso momento, che non era così. Lei se ne tirava fuori.

Tolsi la mano dalla sua gamba. Inspirai a fondo e appoggiai la schiena alla sedia. Continuavo a guardarle gli occhi. Li percepii freddi, distaccati. Poggiò la tazza sul piattino, aveva finito di bere il suo thé e si dedicò con perizia alla fetta biscottata, mordendola a piccoli pezzi e masticando a lungo, concentrata. Afferrai con le mani tremanti i braccioli della sedia di plastica bianca. Li strinsi con forza, vidi le nocche diventare bianche per lo sforzo. La guardai ancora negli occhi che continuava a tenere fissi su quella maledetta fetta biscottata. Ogni morso sembrava un pensiero lontano tanto era distratta. Un vuoto si aprì dentro di me. Un buco nero che si allargava rapidamente. E un rivolo iniziò ad uscirne. Lo percepii con forza. Era come se un veleno si diffondesse nel mio sangue, un gelo che si diffondeva nella vene e nel mio corpo. Era di nuovo la mia rabbia che montava veloce e che afferrava tutti i miei pensieri e i gesti. Un dubbio si insinuò all’improvviso. E se avesse ragione lei?

La signora uscì dalla porta e poggiò sul tavolino la tazza di caffè e il piattino con un cornetto caldo. Si trattenne un attimo più del dovuto al mio fianco, mi poggiò di nuovo la mano sulla spalla con un gesto materno. Ne sentii il calore attraverso il tessuto della giacca e della camicia. La guardai, lei mi rivolse un breve, quasi impercettibile, sorriso. Poi si girò e andò via ma sulla soglia della porta si girò rapidamente e mi guardò. Uno sguardo fulmineo.

Masticai ancora una volta le parole nella mia bocca. Le frantumai e decisi di non farle uscire. Mi dedicai alla colazione. Addentai il cornetto e lo masticai con gusto. La crema calda mi riempì la bocca mescolandosi allo zucchero sulla sfoglia. Ruminai a lungo. Le parole frantumate si addolcirono con il dolce del cornetto. Ingoiai tutto insieme e rimandai dentro le mie reazioni emotive. La rabbia bruciava leggermente le pareti ma i succhi gastrici iniziarono a fare il loro lavoro. Poi sorseggiai il caffè. Staccai gli occhi da lei che era impegnata a tagliare in piccoli pezzi una fetta di torta. Mi guardai intorno. Gli alberi iniziavano a gemmare, le piccole foglie di un abbacinante verde chiaro spuntavano sui rami. Fra una settimana sarebbero già cresciute. L’umido risaliva dalla terra e dall’asfalto illuminati dai raggi del sole apparso al di sopra dei palazzi bassi che costeggiavano la piazza. I vetri del grattacielo dove entrambi lavoravamo scintillavano e le poche nuvole nel cielo scivolavano lungo le pareti dell’edificio.

Mi alzai, la guardai. Le labbra rimasero strette e chiuse in un ghigno involontario. Me ne andai senza riuscire a dire una parola.

La sua voce mi chiamò ma non la ascoltai più.

Lo stridio delle rondini scese dal cielo. Era un grido alto, garrulo che rimbalzava sui muri delle case. Mi fermai e le guardai inseguirsi con i loro voli veloci, precipitarsi verso le mura per poi scansarle all’improvviso, con un gesto elegante e rapido.

Era marzo, restai sorpreso dal vederle già lì con le ali sottili e curve, le pance bianche. La primavera era arrivata all’improvviso con il suo carico di colori, profumi, speranze e la temperatura mite che a breve avrebbe riempito i prati di fiori gialli e rossi.

Il buco lentamente si richiuse e una sensazione di sottile benessere mi avvolse. Alzai il passo e andai via da lì. Sulla porta del bar la signora si appoggiò al muro e sorrise soffermandosi sulle mie spalle mentre annuiva scuotendo leggermente la testa.

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