La scrittura terapeutica

Dicono che la scrittura sia terapeutica contro gli inciampi della vita. Beh, nel mio caso non ha funzionato così. Per mesi ho deciso di chiudermi in un silenzio ostinato e ho deciso, perché incapace, di non scrivere una sola parola.

Certi giorni _soprattutto al mattino mentre sorseggio il caffè addentando un paio di biscotti, possibilmente bruciacchiati, e leggo sull’ipad i quotidiani_ ho l’impulso forte di prendere la penna o il mac e scrivere. Però mi fermo. Scrivere cosa?

Ho tante cose che vorrei scrivere: il racconto di ‘sto casino che sto vivendo perché non ci capisco niente, oppure riprendere in mano un racconto lungo che sento molto autobiografico, oppure ancora la storia di mio figlio Davide, che meriterebbe un romanzo a parte per tutto quello che ci starebbe dentro. In quel momento, in quel preciso istante, in cui il sole spunta alle spalle della villetta di fronte al mio appartamento e la luce calda, gialla, quasi arancione, del primo mattino illumina il tavolo e inonda di oro tutta la polvere che danza nell’aria, mi rendo conto di non avere granché da dire. Mi rendo conto, con un sospiro e con la serenità che avvolge ogni consapevolezza, di non avere le parole per raccontare nulla di tutto ciò. Mordicchio di nuovo il biscotto che ho nella mano destra e abbasso la testa sull’articolo che avevo abbandonato, sapendo che l’avrei fatto solo per un attimo, magari lungo ma sempre e solo un attimo.

So che mi sarebbe utile raccontare la storia di questi mesi, il lungo girovagare fra studi medici, ospedali, visite, accertamenti, sonde infilate nei posti più impensabili, intere sacche di liquidi vari spalmati o inseriti nel mio corpo, che fino ad un attimo prima era assolutamente vergine. Ma non lo farò. Molti scrittori, giornalisti, persone qualunque, scrivono ogni giorno i dettagli più intimi per raccontare il percorso delle loro malattie, della lotta per guarire. Io no. Perché credo sia giusto che restino fatti miei, Credo sia giusto che nessuno debba essere importunato con la storia, magari dettagliata, di un dramma privato. Ammesso che sia, poi, un dramma. La vita è così: imprevedibile e con un minestrone di cose belle e brutte. Se poi avessimo la capacità di guardare con un minimo di realismo il tempo vissuto e facessimo due calcoli, ma proprio due, per quantificare il tempo vissuto nel bene e quello trascorso in balia del male, ci renderemmo conto che la bilancia pende sempre dalla parte del bene. Certo, per chi vive la malattia qualunque essa sia, il tempo alla ricerca di una strada per guarire passa sempre molto lentamente e mette a dura prova il proprio equilibrio e la forza fisica per andare avanti. Certo, quasi ogni giorno la domanda principale sarà: ma ce la farò? Vivrò? E per chi ci sta dentro quel pensiero diventa una specie di mantra che ci si ripete ogni quarto d’ora, fors’anche qualcosa di meno, a prescindere dalla malattia. Poi, prima ancora di rispondersi con un briciolo di onestà, ci si aggrappa a chi vive un dramma molto più intenso del proprio: chi ha un cancro. Ma dura qualche decina di secondi, poi si scrolla la testa e il mantra riprende il suo martello pneumatico nel cervello. Inesorabile.

In realtà la testa va a battere anche da altre parti. Va a cercare quei punti che vivacchiano ai margini, come se fossero frattali, ma che hanno la stessa identica forma del punto centrale, della forma principale, del pensiero madre/padre che ognuno ha dentro di sé. O perlomeno così è per me. Ogni giorno mi chiedo: ma la mia vita cos’è stata?

E la parola che si affaccia, e che si nasconde un po’ imbarazzata ma anche intimorita, è: un fallimento. Oh, sia chiaro, che non è così ma la tendenza all’autocompatimento, al volersi deprimere, diventa un processo inesorabile. Beh, in quel momento i pensieri vanno cacciati via, come la polvere infilata sotto un tappeto. Tanto, di tempo per affrontare quell’argomento ce ne sarà, o almeno lo spero.

Per cui non scriverò nulla per dimostrare come sono sereno, come abbia voglia di vivere, come cercherò, magari in dieci minuti ogni giorno, di fare una cosa nuova, mai fatta, ogni giorno che vivo fino al momento in cui un tizio, o una tizia, con la maschera verde sul volto mi infilerà un ago e il buio scenderà dentro di me, sperando che sia un buio che finisca presto e senza incubi. Poi al risveglio ci sarà un’altra storia da vivere e poi da raccontare.

Nel frattempo, in questi giorni, la scrittura non è terapeutica. Non è nulla. Non esiste.

Invece potrebbe forse far scendere la pressione sanguigna e riconsegnarmi un sorriso nascosto da qualche parte, dentro di me.

Sapete qual è la cosa che più mi stupisce in questi giorni? L’essere passato da un giorno all’altro da essere un uomo sano a uno malato senza paura, senza isteria, ma accettandola come un pezzo di vita. In fin dei conti è una nuova scoperta, è un impegno, è una nuova strada. Sperando, questo sì, di poter un giorno tornare a correre. Perché mi manca da morire il potere delle scarpe spinte sul cemento, il vento gelido sul viso, gli occhi che si tuffano nei colori del tramonto sulle mie strade di campagna, sentire il respiro montare dentro e poi sbuffare fuori con una nuvola di vapore.

Già la corsa. Lì dentro c’era un pezzo della mia scrittura. Sarebbe interessante tirarla fuori da lì.

Un gorno. Forse.

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