Il tempo immobile

I giorni passano e lo sguardo è impastato di una gelatina scivolosa. Tutto appare appannato, con punti un po’ più sfocati. I pensieri arrancano nel fango dei riflessi, progressivamente sempre più lenti. La lucidità cola lentamente verso il basso e le giornate gocciolano via lentamente. Ormai sono incardinate agli odori di una casa abitata ogni minuto di ogni giornata da quattro settimane. Sono tanti, mescolati tra di loro in un groviglio che spesso diventa insopportabile. E peggiora quando si spalancano le finestre per far volare via la polvere stantia e accumulata ai respiri saliti verso il soffitto e alle lacrime scivolate sul pavimento.

L’odore del Cif con cui ogni mattina si strofinano gli elementi dei bagni; quello del bagnoschiuma viola con cui ci strofiniamo la pelle ogni giorno per grattare via ogni presunto virus; quello del caffè e dei té vorticosamente preparati e sorbiti con ingordigia per inseguire il bisogno del risveglio, la riconquista di un briciolo di lucidità; l’odore della gomma surriscaldata delle scarpe da running con cui si corre e si suda sul tapis roulant nuovo di zecca e che a sua volta odora di quel puzzo di plastica e gomma cinesi, quell’odore acuto e intenso che assorbe qualunque morbidezza profumata. Avete presente quando si entra in un negozio Decathlon? Ecco. Quello.

La casa è diventata una piccola centrale informatica: un router, tre extender diffusi nella casa, fili ethernet srotolati, le quatttro stanze tutte occupate, le porte chiuse, quattro portatili e due pc fissi accesi, tablet in ogni angolo per non parlare degli smartphone che ululano in ogni momento della giornata. “Pronto?””Dimmi?””Non sento””Aspe’, non c’è campo. Mi sposto”. Un’insegnante che accarezza le immagini dei ragazzi sullo schermo unto di un vecchio macbook air. Uno studente universitario con le cuffie intrauricolari e il suo portatile lustro che segue le lezioni a distanza. Un altro studente liceale stravaccato su una sedia impagliata, un vecchio pc nero e pieno di ditate che fa finta di seguire le lezioni ma che compulsivamente guarda il suo OnePlus 6T alla ricerca del viso depresso della sua ragazza lontana. Un impiegato confinato su un tavolo che digita compulsivamente su un portatile aziendale graffiato e dai tasti piccoli su cui inciampa in continuazione mentre il suo Xiaomi Mi Mix squilla ininterrottamente. E lui risponde, grugnisce, ascolta, coccola, cerca di guarire ferite che non possono essere guarite. E poi rimette sul fuoco due moka per distribuire un caffè nero e caldo a tutti. Il profumo del caffè si mescola all’odore rossastro dell’alluminio rovente dei computer e tablet in azione.

Ogni tanto non sopporta più quel groviglio di odori e di dolori, di strappi e di scatti in avanti alla disperata ricerca di un obiettivo, qualunque esso sia, che spinga il giorno in avanti, che ridia senso al futuro, alla speranza di un nuovo passato che ritorni.

Ed è in quel preciso momento che lui apre la finestra, poi la porta zanzariera ed esce Socchiude gli occhi, perché la luce lo abbaglia. Li chiude. Inspira profondamente. Il profumo dell’aria. Gli odori sono netti, distinti, lineari e non aggrovigliati. Il profumo degli aghi di pino marittimo, l’erba tagliata di fresco, quello della pietra riscaldata dal sole, l’aroma dei fiori della pianta di pomodoro cresciuta spontaneamente in un vaso. E poi arriva il profumo del mare, delle alghe verdi nella conca lì vicino. Rimbomba il silenzio totale. Non ci sono più gli aerei che atterrano ogni dieci minuti. Risente il lento borbottio arrugginito delle barche ormeggiate nel porto. Squillano le voci dei bambini che provano un gioco, delle mamme che li coccolano con le parole e i gesti. Di sottofondo il lento soffio del vento, tranquillo, che si infila in quel gelido silenzio provocato dall’uomo fermo, rinchiuso, immobile, terrorizzato dall’ignoto. E’ un ignoto che toglie il respiro, l’aria portata da quel soffio di vento profumato e ripulito dallo schifo.

Questo è il tempo immobile nelle settimane del coronavirus.

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