L’uomo era seduto sul tappetino color ruggine, le gambe nella posizione del loto, gli occhi chiusi, la luce flebile della lampada Ikea alla sua destra. Inspirava lentamente e poi espirava, tirando giù il diaframma. Liberava i polmoni e la mente. No mente, si ripeteva come un mantra. No mente. La sera prima aveva visto in televisione per l’ennesima volta “L’ultimo Samurai”. No mente. I rumori intorno a lui si erano amplificati e moltiplicati. Percepiva con chiarezza gli scricchiolii nei muri, il legno dei mobili che si stiracchiava a scatti, il rombo lontano ed offuscato di un motore, il sibili del vento che smuoveva gli alberi. Fissava il punto nero nella parete bianca della sua coscienza. Ma era distratto dalle impronte che aveva lasciato durante la sua vita su quel muro. Ormai non era più bianco, anzi era molto sporco. Quelle macchie, le ombre, lo distraevano in continuazione. Il senso di colpa che era legato a ciascuna di quelle macchie era come un grumo di marmellata scivolato dal coltello sulla tovaglia immacolata appena stesa sul tavolo. Grugnì, innervosito. Cercava la pace. Trovava la confusione. Ma continuò ad inspirare ed espirare, lentamente.
Sentì il rumore della porta che si apriva. Fece finta di nulla. Intuì la sua ombra dietro il chiarore della lampada, sotto la palpebra chiusa. Lei iniziò a parlare, chiedendo scusa come al solito. E lui, come al solito, pensò dentro di sé: “perché chiede sempre scusa?”. Fu costretto ad aprire gli occhi. E la vide, dritta sulla schiena, i capelli lunghi sciolti sulle spalle, un largo scialle di lana grigia intorno al corpo, le mani giunte davanti la pancia. Era di spalle alla finestra e il chiarore della sera ne illuminava il profilo. Lui annuì, l’ascoltò, l’osservò piegando leggermente la testa. Lei apriva le mani, allargava le braccia e lui continuava a guardarla, colpito. Il viso, anche se poco illuminato, si intuiva rosso per le parole, per la grana pesante del suo racconto.
Dopo qualche minuto, lui si perse. Le parole diventarono lo scroscio di un torrente gonfio d’acqua che scorreva furibondo. Il suono diventò massa, groviglio di sentimenti e di sensi di colpa, di accuse e di dolore. Lui alzò lo sguardo e pensò che la sua postura, la penombra, i gesti erano quelli di un profeta. O di una suora. Era comunque qualcosa di trascendente.
Lei terminò il suo racconto. Lui sorrise, raddrizzò la testa. Lei uscì dalla stanza e richiuse delicatamente la porta dietro di sé. Lui richiuse gli occhi, riprese ad inspirare e respirare. Visualizzò di nuovo il muro della sua coscienza e cercò di rintracciare il punto nero al centro di quel muro. Fu attratto, invece, da un’altra macchia nera sul muro, una più recente. La guardò.
Si sentì sconfitto.