Dopo 55 giorni finisce il Lockdown. Comunque andrà, è finito un lungo sogno-incubo. E’ stata una carcerazione domiciliare? No, è stato come vivere un film catastrofico. Ma era reale. Terribilmente reale. E’ cambiato all’improvviso un modo di vivere. Le libertà che davano per scontate sono svanite all’improvviso, con un colpo di spugna. Tutti quei piccoli gesti quotidiani, quelle consuetudini che suscitavano la noia sono svanite e sono diventati desideri, obiettivi, sogni ad occhi aperti.
Quali sono questi piccoli gesti quotidiani? Non so, li metto in fila in ordine casuale, magari caotico.
La fila in macchina per andare al lavoro.I dipendenti Onu che escono dagli alberghi del centro e sciamano per i corsi di Brindisi con i loro vestiti etnici. Il caffè al bar con il pasticciotto alla crema piccolo, le chiacchiere con Marco Spagnolo, il salto veloce a guardare la vetrina della Feltrinelli, che resta sempre la stessa per settimane ma suscita quel piccolo moto di curiosità. Lo scatto d’ira per la collega che controllo saccente il mio lavoro. Correre per le scale a chiocciola della banca, le chiacchiere con Luigi sul Linux Mint o sulla ennesima offerta di Wind-Tre e lui che telefona al call center dopo dieci secondi. La fila al Botteghino per mangiare un piatto di sformato di zucchine intrise di olio e un mucchio di patate al forno spiluccando pezzetti di pizza bianca e di quella al pomodoro. La passeggiata sotto il sole primaverile prima di tornare a casa. La corsa pomeridiana sulle stradine di periferia chiuse al traffico e che portano alla chiesa di Santa Maria del Casale. Guardare ammirato il sole che tramonta i colori che si saturano e che virano dall’arancione al violetto, annusare il profumo del finocchio selvatico e della liquirizia, lo stormo di corvi sul prato dell’aeroporto civile che si alzano in volo starnazzando al mio passaggio, il sudore che mi cola sulle tempie, il podcast di Riccardo Palombo nelle cuffie, il pensiero perso nell’aria fresca, la vita che mi sale dalle caviglie alle meningi. Il sale delle gocce di sudore sulle labbra, la libertà lì, di fronte a me, che scivola sul cemento grigio stinto della strada piena di buche e di acqua.
Questi giorni sono stati anche altro. Sono stati il tempo che rallenta, che mi aspettavo sempre uguale e che così non è stato. Ricordo ogni giorno, i pensieri, le paure, i momenti di panico e quelli di serenità. La casa si è trasformata. Non è un groviglio incasinato, come mi aspettavo diventasse. No, si è trasformata in un luogo vivo, caldo, accogliente ma più pulito. Non importa se sia diventata più ordinata o meno. E’ un luogo accogliente, non un deposito di oggetti accatastati uno sull’altro. Ed p un luogo che non puzza di chiuso ma di aria fresca, ventilata, di pavimenti lavati spesso, di oggetti sistemati in modo da essere a portata di mano. Un ventre di vacca in cui vivono e lavorano quattro persone ognuna delle quali ha il suo ordine o disordine, ma si è imparato a rispettare lo spazio proprio e quello altrui. Non si è mai gridato, forse solo una volta, non ci sono discussioni ma risate, pianti, speranza, sconforto. Ma sono stati vissuti insieme, non come una famiglia da pubblicità ma come quattro adulti che hanno imparato a stare vicini e da soli, come un elastico che si allunga e si accorcia a seconda della spinta ricevuta.
Il silenzio esterno si è presto diffuso come un eco che si è amplificato dentro il corpo e dentro la mente. Un silenzio totale, che è stato più intenso la sera quando ci si azzardava a fare due passi intorno all’isolato e trovare le strade completamente deserte, le macchine immobili, parcheggiate nei cortili o vicino ai marciapiedi. Un silenzio che ha liberato suoni nascosti, piccoli rumori della natura che per anni erano afoni, cancellati dal rombo della modernità. Alzando il viso verso il cielo nero si vedono milioni di punti luminosi mai visti prima.
Il tempo è rallentato, il silenzio ha liberato i pensieri, mi sono fatto domande, dato risposte, pensato, percepito, deciso.
Ho lavorato da casa, lo smart working, con una modalità per cui ho litigato nel sindacato per anni. Ho capito di aver avuto ragione, anche lì si sono liberati pensieri e riflessioni. Ho avuto la fortuna di osservare, e forse un po’ aiutare, la passione degli insegnanti nel garantire a ragazze e ragazzi non solo la scuola, ma le parole di conforto, le domande che nessuno fa, quelle che vanno dritte al cuore, che fanno alzare gli occhi di un adolescente verso l’immagine sfocata sul proprio portatile e, aggrottando la fronte, pensare che quella tizia, ovunque essa sia in quel momento, un po’ mi conosce. E finalmente vedere la prof che beve la tazza di caffè, che un po’ piange sopraffatta dalla paura e dalla tensione e quindi un po’ come loro è.
Ho letto, ho scritto, ho visto film, non ho dormito e mi sono alzato con il mal di stomaco per berci sopra un goccio di grappa che, chiudendo gli occhi nonostante il buio pesto, mi rimandasse nel freddo dei boschi della montagna, a sognare una baita in cui rinchiudersi per sfuggire non alla pandemia ma ad un mondo che non mi piace. Un mondo che ancora una volta non saprà scegliere la strada giusta, quella che potrebbe trasformare questo dramma in una opportunità, in un qualcosa che ci consenta di guardare al futuro come ad un coacervo di scelte per migliorare davvero la vita delle persone, per farle stare meglio, più sicure, più serene, più allegre, più in pace con se stessi e con gli altri, oltre tutti gli steccati finti che sono stati costruiti negli ultimi trenta anni. E’ stato abbattuto il muro di Berlino per costruirne migliaia più soffocanti e più diffusi nel pianeta.
Coronavirus. Dopo, cosa sarà di noi. Inizia la fase 2. Lo vedremo.