Il riflesso d’oro

Si avvicinò alle tende, osservò il colore grigio chiaro. Non le piaceva. Chissà cosa le era passato per la testa quando le aveva scelte. Le scostò, gli scuri erano chiusi e la stanza era illuminata solo dall’abatjour. Fu infastidita anche dalla luce della lampadina che emanava poco calore. Aprì la finestra e socchiuse gli scuri. Il cielo era grigio ferro, le nuvole erano compatte e coprivano il cielo. Del sole nemmeno una traccia. Pioveva, leggermente, una doccia di gocce sottili che battevano sul selciato ad una intermittenza regolare. Fu colpita da questa scansione del tempo, così simile al battito del suo cuore, regolare e solido.

Sbuffò, chiuse gli scuri e la finestra. Voleva uscire, la scusa era andare nella piccola libreria del borgo per dare un’occhiata alle nuove uscite della settimana. Si guardò. Aveva indossato un paio di collant neri e velati. L’aveva fatto per lui, per fargli una sorpresa. Voleva fotografarsi e inviargli un paio di foto, per fargli ricordare quanto lei sapesse essere sensuale, senza volgarità. Ma il malumore aveva preso il sopravvento. Lui non si meritava quelle attenzioni e lei non voleva essere succube. Lui non le aveva mai chiesto nulla. Anzi, alle maliziose provocazioni di lei rispondeva con un sorriso ironico, quasi beffardo. Scosse la testa. Accese la luce nella stanza da letto, aprì l’anta dell’armadio e si specchiò. Le sue gambe erano lunghe, eleganti e con quelle calze si ritrovò bella. Era lei, insomma. E lui, invece, era scomparso.

Indossò sopra i collant un paio di calzini a rombi neri, un paio di jeans e un maglione a collo alto e largo perché non sopportava la costrizione, il collo doveva muoversi liberamente. Nel bagno si specchiò, passò un filo di matita intorno agli occhi e si spruzzò un paio di gocce di profumo, Riavviò i capelli crespi, in quei mesi erano ricresciuti. A lui piacevano così e lei, per provocarlo, la mattina se li stirava e poi gli mandava una foto sul cellulare come buongiorno. Immaginò ancora il suo sorriso, ironico come sempre, e si ritrovò anche lei a sorridere.

Si infilò il giubbotto, indossò la borsa a tracolla, calzò gli stivaletti e prese l’ombrello. Scelse il color viola chiaro che adorava.

Lungo la strada inspirò a fondo l’aria fresca ed umida. Le colline intorno al borgo erano sfocate, le nuvole gonfie e pesanti stavano velocemente scendendo a coprire le cime. Camminò lentamente, evitando le pozzanghere, cercando con gli occhi qualche volto amico con cui fermarsi a scambiare due parole. Non c’era nessuno. E la sua mente ritornò con rabbia a lui. Ormai non lo vedeva da sei mesi. L’ultima volta fu quando si salutarono sulla baita, in cima al passo del monte sopra il borgo. Lui la salutò con un abbraccio forte, la baciò con intensità, girò le spalle e scese a valle inseguito dal cane. Da quel momento lui era scomparso, anche il cane. L’aveva cercato ovunque, spesso entrò nella casetta vicino alla riva del lago dove lui viveva. Non c’era nessuno. Eppure tutto era stato lasciato come se fosse uscito per fare una passeggiata, i quaderni e i libri sul tavolo sotto la finestra, il letto e la cucina in ordine, era come se tutto fosse in sospeso.

Dopo qualche giorno si fece vivo da un numero sconosciuto e via mail. Le aveva chiesto scusa e aveva spiegato il perché di quell’allontanamento. Lei si era infuriata, non rispose più ai suoi messaggi su Telegram, che lui le aveva chiesto di utilizzare, e neppure alle mail, inviate da un account Proton criptato. Camminava e ripensava rabbiosa a quell’abbandono. Lui le mancava, intensamente, maledettamente. Le mancava la sua voce, il suo corpo, il sorriso, lo sguardo con gli occhi socchiusi e l’aria sorniona, da gatto pigro. Da alcuni giorni lei aveva deciso di inviargli dei messaggi audio. Era consapevole dell’effetto che la sua voce aveva su di lui, di come riuscisse ad abbattere la sua razionalità e ad intrufolarsi nella crepa delle emozioni. Lui le blindava con determinazione. Lei riusciva ad intrufolarsi e ad aprire le pareti di quel mondo.

Dove sei? Perché non sei qui con me? Aumentò il passo, infilò il piede in una pozzanghera e bestemmiò con la voce rotta.

Il cielo si era scurito, un lampo scosse il silenzio del borgo. Una folata di vento gelido arrivò dall’oceano mescolata all’odore delle alghe e un vago sentore di sabbia bagnata.

All’improvviso si scatenò il nubifragio. L’acqua cadde a secchiate, rimbalzando sull’asfalto crepato e schizzando via quella nelle pozzanghere. Si rese conto che l’ombrello era piccolo e non reggeva l’acqua. Onde di pioggia scivolava verso la parte posteriore e colava sul giubbotto per poi intrufolarsi nell’apertura degli stivaletti. In pochi secondi si ritrovò i piedi inzuppati. Scappò e si infilò sotto un porticato buio e umido. Scosse l’ombrello, innervosita. Lanciò un urlo: “dove sei??? Perché non sei qui con me? Perchè?” E si ritrovò con le lacrime che scendevano sulle guance. Se le asciugò con un gesto rapido e si scosse, arrabbiata da questa debolezza. Strinse i pugni e serrò le labbra. Lui era la sua pioggia, era l’acqua che le aveva inumidito la schiena, era i brividi che la scuotevano.

In quel momento avvertì una scossa al polso. Guardò l’orologio e vide l’avviso di un messaggio Telegram. Afferrò il suo cellulare, lo sbloccò. Era lui.

“Che fai?” Le gli rispose che stava andando in libreria e chiuse la comunicazione.

Riprese il cammino verso la sua destinazione ormai indifferente alla pioggia, all’acqua nelle scarpe, ai calzini bagnati, ai collant neri indossati per lui e alle lacrime che continuavano a scendere senza che nemmeno se ne accorgesse.

Arrivò in libreria. Entrò con un sorriso, infilò l’ombrello nel secchio all’ingresso. Salutò la proprietaria, sua amica, si abbracciarono ridendo per la pioggia e per come si fosse inzuppata.

“Scusami, ti bagnerò il pavimento”. La proprietaria le rispose con un gesto che diceva: non importa. Chiacchierarono per qualche minuto e dopo la lasciò libera di gironzolare dirigendosi verso il banco dove aveva già preparato il libro che l’amica le aveva ordinato.

Lei prese il telefono, accese la app per le fotografie e scattò una foto del locale mettendo al centro dell’immagine i nuovi arrivi. Prima di ripensarci la inviò a lui. Dopo qualche secondo vibrò di nuovo. Lei si sorprese. Aprì rapida Telegram. “Guarda, il libro al centro della foto: è bellissimo”. Lei rispose, secca: “oggi no. Devo ritirare quello che ho ordinato. Lo sai che non riesco a accumulare inutilmente.”

“Ok, hai ragione.” e di fianco l’emoticon sorridente.

Poi un altro messaggio: “Fammi vedere il libro che hai ordinato. Sono curioso”

Lo lasciò aspettare. Girò nei due corridoi della piccola libreria, un vago senso di fretta dietro la schiena contro cui cercò di imporsi. La luce della bottega era calda, piacevole e illuminava tutti gli angoli. Gli scaffali laterali erano colmi di libri ordinati e ben tenuti.

Si avvicinò al banco. L’amica le posò il libro sul banco, sorridente. Lei riprese il telefono e scattò una foto, la inviò a lui. Poi sorrise all’amica e le chiese il costo. Pagò, abbracciò stretta la donna e uscì dal locale. La pioggia era meno intensa, di nuovo si era trasformata nella cascatella continua di gocce che offuscava i contorni di tutto ciò che aveva di fronte. Era una nebbiolina increspata e fastidiosa.

Vibrò il telefono. Lo prese.

“Ma è il libro che ti avevo consigliato qualche mese fa!”

“Sì”

“Sono contento”

Iniziò a digitare furibonda, poi cancellò, poi ricominciò e cancellò di nuovo.

“Beh? A chi stai scrivendo?” scrisse lui, l’emoticon arrabbiato.

“Cretino, che vuoi?”

“Te”

“Allora dove cazzo sei? Perché sei sparito?”

“Devi fidarti di me”

“Sono sei mesi che non ti vedo!”

“Lo so. Mi dispiace. Ma ti penso sempre. Ogni secondo sei nei miei pensieri.”

“Io ti voglio qui con me!”

“Fiducia”

Si rese conto che stava tremando, invasa dalla rabbia. Non riusciva a tenere fermo l’ombrello, le gocce avevano ripreso a bagnarla. Aveva freddo, si sentiva un buco nel cuore. Strinse ancora i pugni e le labbra.

Abbassò la testa, l’asfalto era grigio scuro. Sotto i suoi piedi c’era una piccola crepa e all’interno era cresciuto un cespuglio verde e al centro un bocciolo di fiore giallo. Lo osservò. Doveva fidarsi? C’era una speranza?

Davanti ai suoi piedi si era creata una larga pozzanghera scura, in cui si specchiavano le nuvole che come batuffoli di cotone sporco ingombravano il cielo. In quello specchio screziato dalle gocce di pioggia apparve un’ombra. Nello scuro si specchiò un piccolo riflesso dorato. Lei alzò la testa.

Lui era lì, davanti ai suoi occhi, con la pioggia che gli scivolava sulla testa lucida. Si era rasato i capelli e aveva una folta barba. Gli occhi neri erano ancorati ai suoi. Sulle labbra il suo sorriso, ironico, sornione, con una leggera piega verso destra.

Lei gli tirò un pugno sulla spalla. Lui invece si avvicinò ela abbracciò stretta, inzuppando quel poco di lei che era rimasto solo umido. Lei guardò l’orecchino, il riflesso d’oro nell’acqua. Sorrise. Avvicinò le labbra all’orecchio e gli leccò il lobo e l’orecchino. Lui ebbe una scossa violenta e finalmente scoppiarono a ridere. Si baciarono a lungo, intensamente, le lingue intrecciate. L’ombrello era caduto per terra. Lui le prese la mano, la strinse mentre lei si piegò per raccogliere l’ombrello.

“Andiamo a casa” le disse lui.

“Sì, andiamo” e pensò alle sue mani su di lei, finalmente.

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