Aveva trascorso il pomeriggio camminando per i boschi. Nel suo vagabondare, dopo una discesa in un prato verde, affiancato da un canneto inusuale per quell’altezza, si trovò di fronte un reticolato di sentieri che si insinuavano tra gli uliveti. Senza seguire nessuna logica decise di seguirne uno che scendeva verso valle. La terra era nera, ancora umida dalla pioggia che era caduta nel pomeriggio. Intorno un profilo di erba gialla, alta. Oltre, la terra argillosa e il bosco di ulivi intervallati geometricamente con una cura maniacale. Intorno a lui c’era solo silenzio, interrotto dal soffio leggero della brezza che si solleva al tramonto. In fondo al sentiero torreggiavano due alti cipressi stretti e lunghi. Le cime ondeggiavano in simbiosi, come se stessero seguendo un ritmo all’unisono. In fondo, oltre la valle, le colline si arrampicavano verso l’alto, in cima un folto bosco di querce e faggi. In lontananza udì l’abbaiare di cani, probabilmente in qualche fattoria oltre gli alberi.
Continuò a scendere con un passo veloce. Osservava con attenzione il terreno, alla ricerca di tracce o di orme di cinghiali. In quella strana stagione le colline erano piene di famiglie di cinghiali che scorrazzavano nei campi. Lui aveva aveva paure delle mamme, che per difendere i loro piccoli avrebbero caricato a testa bassa chiunque pur di difenderli. Oltre la curva, di cui non vedeva la discesa e la fine, ascoltò un grugnito lontano. Era in tempo per ritornare indietro ma decise di andare avanti comunque. In quel momento non aveva paura di nulla.
Fausto, questo era il nome di quell’uomo, avvertiva un’assenza intensa dentro di sé. La percepiva come una sostanza spessa, avvolgente che gli richiudeva lo stomaco e gli allentava la forza nelle gambe. Per superare quell’assenza camminava instancabilmente. Girava per i boschi, per le campagne, si arrampicava sulle rocce senza tutele e senza difesa. Non aveva nulla da difendere, nulla da tutelare. Non era un uomo allo sbando. Era un uomo che semplicemente non poteva avere ciò che desiderava. E come spesso capita, in quella condizione decise di mollare gli ormeggi e di lasciarsi andare. Alla fine aveva solo due possibilità: o sopravviveva, imparando e accumulando esperienza di vita oppure periva e non è che gli importasse granché.
Mentre rifletteva su questi pensieri cupi, e nello stesso rivelatori, superò la curva e si trovò di fronte una ampia valle circondata da colline impervie ammantate di verde scuro. In fondo il sole, una enorme palla arancione, stava tramontando e si infilava pigramente dietro le cime all’orizzonte.
Si fermò ad ammirare lo spettacolo della natura, del giorno che finisce e lascia spazio alla pace della notte e del buio ristoratore. Si rese conto, però, che era tardi e che correva il rischio di restare bloccato nelle campagne senza punti di riferimento. Accelerò il cammino e si diresse verso le luci all’orizzonte. Camminò velocemente, lasciando indietro i pensieri e la mancanza. Ma passo dopo passo il peso cresceva. Finché riuscì ad arrivare alla periferia del borgo. Raggiunse una strada asfaltata nel momento in cui le prime stelle scheggiavano il blu cobalto del cielo. Qualche lampione arancione illuminava la strada. Guardò a destra e poi a sinistra. Decise di dirigersi verso il paese alla ricerca di un posto dove passare la notte. Dopo un paio di chilometri incontrò il cartello con il nome del paese e restò interdetto: era il paese in cui viveva lei. La sua mancanza. Guardò il cielo, ormai nero. In fondo stava risalendo, veloce come il tempo che scorre, la luna in fase crescente. Una mezzaluna bianca, selvaggia, dal naso aguzzo che lo osservava quasi irridendolo.
Si guardò intorno, indeciso. Tornare indietro o affrontare la sfida della vicinanza. Era stanco, anche di fuggire da quella assenza. Era arrivato il momento di guardarla, da vicino. La strada da percorrere la ricordava bene. Aumentò il passo, strinse le cinghie dello zaino e si diresse verso la via dove lei abitava. Non si fece domande, non si lasciò il tempo di riflettere. Non ci volle molto, il borgo era piccolo e deserto. Non passò sulla strada nemmeno una macchina.
Superò la rotonda, poi affrontò il bivio. Arrivo alla strada dove lui, quelle volte in cui si vedevano clandestinamente, l’aspettava con l’ansia dell’innamorato. Attendeva la vista di quel cespuglio di capelli, di essere guardato da quegli occhi profondi, in cui lui si perdeva come se cadesse in un pozzo profondo. Si fermò un attimo e inspirò a fondo il profumo degli alberi che coprivano l’asfalto e le poche macchine parcheggiate. Poi riprese a camminare e dopo un paio di semafori arrivò alla strada. Era una piccola, stretta, strada senza uscita. La percorse e arrivò in fondo, vicino al muro di antiche pietre che lo chiudeva. Guardò il portone. Spostò lo sguardo sulla finestra della cucina, la luce era accesa, la tenda tirata.
La vide, di spalle, il cespuglio di capelli fuori controllo. Le sue spalle dritte, il movimento delle braccia elegante, felpato. Stava distribuendo i piatti della cena. Chiuse gli occhi e ripensò alla morbidezza della sua pelle, le mani che accarezzavano le scapole, che la stringevano a sé. Lui scosse la testa, si girò, vide un gradino alle sue spalle. Slacciò lo zaino. Lo poggiò per terra. Si sedette sul gradino. Guardò di nuovo verso la finestra. Tastò dentro di sé la sua assenza, una roccia dalle punte aguzze che ferivano e che lasciavano scorrere il suo sangue. Un dolore insopportabile lo trafisse. Si prese la testa fra le mani. E pianse, disperato. Perché quell’assenza non l’avrebbe mai più abbandonato. Ed era un dolore insopportabile.