La sabbia mobile

La rabbia è una sostanza fangosa, una sorta di sabbia mobile rampicante che inizia a diffondersi da un qualche punto sconosciuto al proprio interno, per poi diffondersi. Talvolta lo fa rapidamente, qualche altra volta lo fa lentamente. La rabbia è quella marmellata inacidita e ammuffita che una volta ingurgitata fa compiere gesti inconsulti. Quando li compiamo siamo soliti affermare: “ho fatto una cosa che non mi appartiene, non fa parte di me”. Dentro, invece, esattamente nello stesso momento in cui diciamo la frase una vocina ci ricorda, con drammatica crudeltà, che non è così. Quel gesto che abbiamo compiuto ci appartiene. Eccome se ci appartiene. Ma il buon senso e le convenzioni sociali, quella sorta di buonismo che ci consente di essere accettati dalla collettività, ce l’hanno fatto nascondere, mascherato sotto un sorriso dolce e delicato con cui prendiamo in giro tutti coloro che incontriamo ogni giorno. Invece no. Quel gesto non è stato estemporaneo. Quel gesto lo maturavamo da tempo, graffiava la pelle, scorticava il sistema nervoso, era lì che si infilava nel sangue dentro le vene e circolava furibondo dentro i muscoli. Ed ecco che, all’improvviso, quando meno te l’aspetti, quando ormai pensi di averlo sotto controllo, il suo urlo squarta la carne ed esce come un fiotto di sangue, come un colpo di pistola, come una mano che si chiude a pugno e all’improvviso parte. Senza controllo, senza filtro, crepando la maschera che si è indossata.

Quella è la rabbia. Non è una fanghiglia piovuta dall’alto. Non è una sabbia mobile in cui le gambe si sono infilate inconsapevolmente. No. Quella è semplicemente la verità che emerge dall’interno, stanca delle convenzioni borghesi si ritaglia un suo spazio per opporsi allo strapotere del perbenismo e cercare un suo spazio di luce. La rabbia è quella poltiglia che ti fa parlare usando il verbo della verità cruda, senza infingimenti, senza l’appannamento della brina depositata dalla buona educazione.

La rabbia è la parte più vera di sé stessi, è la forza di ubriacarsi e vomitare sulle scarpe della persona che odi e che, invece, fai finta di rispettare. Ma dentro di te non vedi l’ora di fargli pagare tutto il male che ti ha causato. E di farglielo pagare con i giusti interessi, anche se dentro di te odi il concetto di interesse perché odi ogni cosa che abbia a che fare con le logiche del capitalismo moderno, ma anche di quello ottocentesco.

La rabbia però come esce di getto, dopo essere stata espulsa scivola via, sgocciola sul pavimento, sull’asfalto sporco della strada in cui ti sei fermato per appoggiarti con la mano sul muro e cercare di riprendere il fiato. Con la testa bassa la vedi scivolare, densa e rossastra, verso il primo tombino. Dopo qualche minuto resterà l’alone bagnato, una forma informe che disegna quello che era un pezzo di te. E che, ora, non c’è più. Nè dentro di te e nemmeno fuori. Un pezzo di te è scivolato via ed è finito lì dove era giusto che andasse: in una fogna.

Eppure resti lì, appoggiato al muro e senza fiato, a cercare di capire se sei integro, se le tue ossa sono a posto, se qualcosa si è rotto. E tu sai bene che qualcosa si è effettivamente rotto, che un pezzo di te, un pezzo importante è schizzato via. Ma non è il tuo sperma, è qualcosa di altrettanto intimo e di altrettanto fecondo. Che tu hai lasciato andare via rendendolo inutile e non più fertile. Sei più solo, sei rotto, la pelle scheggiata, lo stomaco infiammato, gli occhi arrossati, i polmoni che si stringono alla ricerca di aria.

La rabbia è andata via. L’hai lasciata andare via senza controllo. Ora non fa più parte di te. Potevi usarla, trasformarla, darle una dignità. Invece hai saputo solo fare del male. E ti senti solo un po’ più idiota.


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