Edith e Thomas

La sua vita è giunta al termine, le restano pochi giorni. La tapparella è semichiusa. Il sole sta tramontando dietro le colline in fondo alla valle tagliata a metà dal fiume. Edith si chiede se l’acqua sia già gelida oppure se ha mantenuto il tepore delle pietre in fondo al letto del fiume, riscaldate dal sole infiltrato tra i folti rami del bosco. Edith sospira, disperata e quieta nello stesso tempo. Ripensa alla sua vita, alle occasioni perse, al rimpianto per non aver saputo fare le scelte giuste in gran parte del tempo che le è stato concesso. Ma è anche quieta perché alla fine ha trovato dentro di sé quel coraggio e ha avuto la fortuna di incontrare un nuovo sentiero di vita da percorrere.

In fondo alle colline suona la campana di una chiesa campestre, una qualche pieve medievale infilata dentro un bosco di faggi, corbezzoli e cipressi. Lei ricorda la bellezza del vestito verde di tulle con cui si è sposata, un giorno mite di aprile nella piazza di Firenze, con Thomas.

Sono passati solo due anni, lei già sapeva della malattia ma Thomas non ha avuto alcun dubbio e lei non ha mollato. Lui l’ha voluta sposare, anzi era ancora più determinato. Sono stati felici.

Edith si gira verso di lui. Lo guarda e lui le sorride. Le stringe la mano. Con l’altra infila le dita nel suo braccio e poi accarezza la pelle come ha sempre fatto quando si incontravano, amanti clandestini, in qualche parcheggio di supermercato rubando il tempo alle altre famiglie ormai rotte.

Lei pensa: che peccato lasciarlo. Che bello averlo incontrato e poter andare via solo dopo essere stata felice. Con lui. E, finalmente, può chiudere gli occhi con un sospiro e con un sorriso sereno sul bel volto scavato. Lui aspetta che lei vada via e lascia, anche lui finalmente, esplodere il suo dolore inconsolabile.

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Ping

Erano le dieci di sera. Troppo tardi per mangiare, mi sarebbe rimasto il cibo sullo stomaco, qualunque cosa avessi ingoiato. Avevo cucinato il pollo al forno con le patate e mentre cuoceva nel forno a 240° avevo messo sul fuoco un po’ d’acqua, in una pentola piccola, e cucinato un pugno di spaghetti da unire ai broccoli e guanciale: il pranzo del giorno dopo. Il profumo del pollo rosolato aveva invaso la piccola cucina. Nonostante ci fosse un vento teso di tramontana avevo aperto la finestra e alzato la tapparella per rinfrescare l’aria rovente nella stanza. Mescolavo, irroravo, predisponevo perché dovevo comunque andare a prendere il ragazzo al palazzetto dopo l’allenamento. Mi muovevo con gesti consolidati, automatismi acquisiti nel tempo e con la solita fretta multitasking che mi faceva percepire lampi di vitalità e scivolare via i pensieri. Guardavo ciò che avevo davanti e con la coda dell’occhio osservavo la carne nel forno. Insomma, tutto era sotto controllo. Nella cucina. Nella mia testa, invece, c’era un rimescolio forsennato e fuori sincrono. Gli ingranaggi dei pensieri non convergevano e tutto sembrava portarmi verso uno sbiellamento che poteva creare danni rilevanti. Lei, sempre e solo lei nella mia testa. I suoi occhi che mi guardano, il profumo della sua pelle, l’odore del detersivo degli abiti che dal basso saliva verso di me. Sospesi i movimenti, gettai le pentole sui fuochi della cucina e mi voltai per afferrare il cellullare. Lo sbloccai con il dito, odiavo quel sensore laterale e mi chiesi, ancora una volta, il perché di una simile scelta, scomoda e pretenziosa. Guardai lo schermo. Niente. Non c’era nessun messaggio. Guardai l’ora. Erano passati 49 minuti senza un pensiero. Buttai con violenza il cellulare sul carrello, alzando con un gesto innaturale ed esagerato il braccio. Tornai alla cucina, appena in tempo per vedere l’acqua bollente della pasta esondare dalla pentole e con uno sbuffo di schiuma biancastra colare sul fornello e spegnere la fiamma. Borbottai una bestemmia che non coprì il ping del cellulare. Mi voltai e riafferrai il telefono. Sbloccai con l’impronta, ma perché questo sensore al lato?, e lessi. “Ti penso sempre”. Con un sorriso idiota infilai il cellulare dentro l’acqua bollente della pasta e rimestai con la cucchiaia di legno mentre riaccendevo la fiamma sotto la pentola.

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L’Airone

L’AIRONE

Il sole iniziò a tramontare alla sua sinistra, scese rapido dietro le colline. A destra sorse la luna, i contorni offuscati dalla nebbia che saliva dai boschi di querce. Lui correva sul sentiero lungo il fiume. Intorno a sé prati ancora verdi, boschi, orti coltivati dagli anziani. Lungo la striscia grigia dell’asfalto non c’era nessuno. Al suo fianco lei andava veloce e lui faticò a tenere il suo passo, sorpreso da quella sua falcata leggera, compatta. La guardò, sorridendo. Lei, concentrata nello sforzo, ad un certo punto avvertì il suo sguardo, si girò verso di lui e l’espressione seria si trasformò in un sorriso aperto, era pura luce. Dietro la testa crespa di lei apparì la punta della luna, tonda e gelida. Il loro passo fu ovattato e amplificato dal silenzio tutto intorno. Solo lo scorrere placido del fiume ogni tanto si ruppe e diventò un ruggito nello scontro con le rocce e i tronchi caduti dalle sponde ripide.

La corsa diventò sincrona e lui, ritrovato il passo, riuscì a stare al ritmo della donna. 

La scrutò e pensò come fosse bello averla vicino e poter correre insieme. 

Era buio anche quella sera di sei mesi prima, lui correva in un sentiero vicino al mare, affrontava la curva verso il piccolo bosco di cui aveva scritto e che li aveva fatti conoscere in rete, due sconosciuti che vivevano lontani l’uno dall’altra. Perso nei suoi pensieri affondava il passo nella terra e all’improvviso sentì un respiro al suo fianco e percepì l’immagine di lei che correva al suo fianco e gli sorrideva. Un attimo dopo la visione svanì e lui si ritrovò da solo nella nebbia che iniziava a salire dalla terra calda. Affiancò l’invaso d’acqua vicino al bosco e lo scorse, bianco, enorme, il collo lungo. Rallentò e vide che l’animale si mise in posizione, elegante e sfrontato. Si osservarono a lungo e poi volò via.

Lei, mentre l’uomo era perso nel ricordo, aveva preso velocità e lo distanziò. 

Gli passò nella mente, per un attimo, l’idea di perderla. Il passo si spezzò, rallentò, si accorse del fiato che veniva meno e poi si bloccava. Si piegò sulle gambe e si ritrovò, inconsapevole, a singhiozzare. Le lacrime colavano sulle guance e gocciolavano per terra. Lei si fermò, corse da lui, si inginocchiò al suo fianco e lo abbracciò forte, senza dire nulla. Si asciugò gli occhi, imbarazzato. Le disse di non preoccuparsi e ricominciò a correre, terrorizzato da quell’immagine di un futuro senza di lei.

Accelerò il passo nel tentativo di scaricare sul terreno umido la paura. Lei reggeva tranquillamente la velocità senza mostrare alcuno sforzo. 

Arrivarono alla fine del rettilineo, gli ultimi orti erano intorno a loro, intravidero la chiesa campestre, la affiancarono, lei gli raccontò dell’allagamento per la piena del fiume, che ora scorreva placido. Fu in quel momento che lo vide sulla sponda, enorme, bianco, elegante. Si osservarono, l’animale si mise in posizione per farsi ammirare nella sua bellezza glaciale. L’uomo rallentò e continuarono a scrutarsi, poi l’uccello scomparve veloce nell’erba alta. Restò colpito e sorpreso. 

Lui vide che il sentiero virava verso il sottopasso della ferrovia. Sentì in lontananza il rumore di un treno. La affrontarono superando un gruppo di vecchietti che parlavano ad alta voce gesticolando animatamente. Piegarono per l’altra curva a sinistra e si trovarono davanti il marito della donna che stava correndo nel senso opposto. Lei aveva detto che utilizzava un altro sentiero. L’uomo, sudato e un po’ sovrappeso, la salutò sorpreso di trovarsela di fronte. Lei ruppe il ritmo, decelerò, confusa guardò la nuca di lui che continuò la corsa, il viso le si frantumò nella disperazione. Lui, facendo finta di non conoscerla, continuò a correre con il viso congelato in una maschera rigida. Sentì la voce di lei che sfumava nella distanza. 

Accelerò, guardò il fiume velato dalle lacrime e volò via.

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Il ciotolo verde

E’ una calda mattina di ottobre. Il cielo è opaco, velato da un’afa fuori tempo. Il Salone riapre dopo un anno e mezzo di chiusura. 

Lei è lì, emozionata. Si guarda nel vetro del vagone della Metro. E’ alta, magra, appuntita negli angoli del suo corpo, un viso pacifico, un caschetto di capelli neri e crespi. Indossa una camicia verde petrolio e un paio di jeans un po’ logori, ai piedi un paio di sneaker Adidas verdi come la camicia, un giubbotto largo con il cappuccio. 

E’ arrivata in treno, si è alzata presto, il cielo era nero. E’ la prima volta che viaggia da sola per arrivare in una grande città del nord Italia. Arriva da una piccola cittadina della Toscana. Ha preso il bus per arrivare a Firenze e un treno Frecciarossa che l’ha portata a Torino. Al suo fianco ha viaggiato un signore gentile che le ha sorriso ma non ha parlato. Ha mantenuto durante il viaggio un silenzio intimidito e questo l’ha tranquillizzata. Ha letto un libro di Naspini. Lei l’ha letto e le era piaciuto. Talvolta l’ha guardato di sottecchi, incuriosita. 

Alle 11 del mattino il treno è arrivato a Torino. Lei ha studiato il percorso su Google Maps. Ha preso all’ingresso della stazione la Metro, destinazione Lingotto. Il padre il mattino a colazione, mentre lui sorseggiava lentamente la sua tazzina di caffè, le aveva spiegato che un tempo, nemmeno tanto lontano, era una delle fabbriche di automobili italiane più famose e invidiate nel mondo. Lei lo ascoltava insonnolita mentre inzuppava i frollini nel suo tè nero tiepido.

Il padre le raccontava quella storia lontana di lotte operaie mentre la mamma le infilava in una busta un paio di contenitori di plastica verde scuro. Quando il padre aveva terminato di parlare, la madre le aveva messo una mano sulla spalla e le spiegava cosa aveva messo in quei contenitori di plastica. Le aveva scritto il contenuto sul coperchio. Le sorrise, l’aveva abbracciata con forza e spinta via verso la porta di casa. Le aveva augurato buon viaggio mentre si girava per nascondere una lacrima. La sua bambina era cresciuta e doveva uscire da quella casa ormai stretta per lei.

L’uomo sul treno aveva osservato quella ragazza e percepì una forza inaspettata che pulsava nei suoi occhi. Si concentrò nel libro di Sasha Naspini fino all’arrivo a Torino. Ha lasciato passare la ragazza, le ha sorriso, è sceso dal treno, riguardato la mappa e cercato l’ingresso della metropolitana che l’avrebbe portato al Lingotto. Esce dal buio ovattato della metro sotterranea ed è colpito dalla luce opalescente, offuscata da un tepore eccessivo per l’autunno. Attraversa il viale e si infila nel parcheggio del Lingotto, diretto verso l’ingresso del Salone. Si ritrova infilato in una coda infinita di persone. E, quando dubita di riuscire ad entrare nel Salone in tempi ragionevoli, la rivede. 

La ragazza del treno è poco più avanti di lui nella coda. Cammina lentamente di fianco ad un’altra ragazza che le parla. La incrocia ad ogni giro nel budello a serpente, delimitato da divisori di plastica blu. La ragazza ascolta l’amica, apparentemente concentrata. Poi, all’improvviso, apre lo zaino che ha sulle spalle e tira fuori un contenitore di plastica, verde scuro come il colore della camicia. Lo apre, nelle mani una forchetta di bambù, e inizia a mangiare. L’uomo incuriosito, alza la testa e guarda all’interno del contenitore: è una porzione abbondante di conchiglie condite con un sugo di pesto verde scuro. Lei continua cammina tranquilla, la schiena naturalmente dritta. Il viso magro e lungo è impegnato a masticare la pasta, una forchettata alla volta. L’amica la guarda, interrompe il suo monologo e le dice: “ma sai che ho proprio fame?” portando una mano sulla bocca dello stomaco. La ragazza, continua a ruminare la pasta, infila la mano nello zaino e tira fuori l’altro ciottolino color verde scuro, legge la scritta della madre, annuisce con un leggero cenno della testa, e lo porge all’amica. Questa rimane interdetta, con le labbra semiaperte che non riesce a rispondere, sorpresa dal gesto naturale della ragazza. Riusce solo a dire: “per me?”.

La ragazza si lascia sfuggire un sorriso e torna a masticare le sue conchiglie al pesto. L’amica prende il contenitore e il cucchiaio di bambù che la ragazza le ha teso, legge la scritta sul coperchio, lo apre e inizia a mangiare il riso. Tutte e due continuano a camminare con passo tranquillo, mangiando e chiacchierando, mentre seguono il percorso che le porta verso la biglietteria e il sospirato ingresso nel mondo del Salone Internazionale del Libro. 

L’uomo le osserva con un sorriso.    

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La mezzaluna in una sera di fine estate.

Aveva trascorso il pomeriggio camminando per i boschi. Nel suo vagabondare, dopo una discesa in un prato verde, affiancato da un canneto inusuale per quell’altezza, si trovò di fronte un reticolato di sentieri che si insinuavano tra gli uliveti. Senza seguire nessuna logica decise di seguirne uno che scendeva verso valle. La terra era nera, ancora umida dalla pioggia che era caduta nel pomeriggio. Intorno un profilo di erba gialla, alta. Oltre, la terra argillosa e il bosco di ulivi intervallati geometricamente con una cura maniacale. Intorno a lui c’era solo silenzio, interrotto dal soffio leggero della brezza che si solleva al tramonto. In fondo al sentiero torreggiavano due alti cipressi stretti e lunghi. Le cime ondeggiavano in simbiosi, come se stessero seguendo un ritmo all’unisono. In fondo, oltre la valle, le colline si arrampicavano verso l’alto, in cima un folto bosco di querce e faggi. In lontananza udì l’abbaiare di cani, probabilmente in qualche fattoria oltre gli alberi.

Continuò a scendere con un passo veloce. Osservava con attenzione il terreno, alla ricerca di tracce o di orme di cinghiali. In quella strana stagione le colline erano piene di famiglie di cinghiali che scorrazzavano nei campi. Lui aveva aveva paure delle mamme, che per difendere i loro piccoli avrebbero caricato a testa bassa chiunque pur di difenderli. Oltre la curva, di cui non vedeva la discesa e la fine, ascoltò un grugnito lontano. Era in tempo per ritornare indietro ma decise di andare avanti comunque. In quel momento non aveva paura di nulla.

Fausto, questo era il nome di quell’uomo, avvertiva un’assenza intensa dentro di sé. La percepiva come una sostanza spessa, avvolgente che gli richiudeva lo stomaco e gli allentava la forza nelle gambe. Per superare quell’assenza camminava instancabilmente. Girava per i boschi, per le campagne, si arrampicava sulle rocce senza tutele e senza difesa. Non aveva nulla da difendere, nulla da tutelare. Non era un uomo allo sbando. Era un uomo che semplicemente non poteva avere ciò che desiderava. E come spesso capita, in quella condizione decise di mollare gli ormeggi e di lasciarsi andare. Alla fine aveva solo due possibilità: o sopravviveva, imparando e accumulando esperienza di vita oppure periva e non è che gli importasse granché.

Mentre rifletteva su questi pensieri cupi, e nello stesso rivelatori, superò la curva e si trovò di fronte una ampia valle circondata da colline impervie ammantate di verde scuro. In fondo il sole, una enorme palla arancione, stava tramontando e si infilava pigramente dietro le cime all’orizzonte.

Si fermò ad ammirare lo spettacolo della natura, del giorno che finisce e lascia spazio alla pace della notte e del buio ristoratore. Si rese conto, però, che era tardi e che correva il rischio di restare bloccato nelle campagne senza punti di riferimento. Accelerò il cammino e si diresse verso le luci all’orizzonte. Camminò velocemente, lasciando indietro i pensieri e la mancanza. Ma passo dopo passo il peso cresceva. Finché riuscì ad arrivare alla periferia del borgo. Raggiunse una strada asfaltata nel momento in cui le prime stelle scheggiavano il blu cobalto del cielo. Qualche lampione arancione illuminava la strada. Guardò a destra e poi a sinistra. Decise di dirigersi verso il paese alla ricerca di un posto dove passare la notte. Dopo un paio di chilometri incontrò il cartello con il nome del paese e restò interdetto: era il paese in cui viveva lei. La sua mancanza. Guardò il cielo, ormai nero. In fondo stava risalendo, veloce come il tempo che scorre, la luna in fase crescente. Una mezzaluna bianca, selvaggia, dal naso aguzzo che lo osservava quasi irridendolo.

Si guardò intorno, indeciso. Tornare indietro o affrontare la sfida della vicinanza. Era stanco, anche di fuggire da quella assenza. Era arrivato il momento di guardarla, da vicino. La strada da percorrere la ricordava bene. Aumentò il passo, strinse le cinghie dello zaino e si diresse verso la via dove lei abitava. Non si fece domande, non si lasciò il tempo di riflettere. Non ci volle molto, il borgo era piccolo e deserto. Non passò sulla strada nemmeno una macchina.

Superò la rotonda, poi affrontò il bivio. Arrivo alla strada dove lui, quelle volte in cui si vedevano clandestinamente, l’aspettava con l’ansia dell’innamorato. Attendeva la vista di quel cespuglio di capelli, di essere guardato da quegli occhi profondi, in cui lui si perdeva come se cadesse in un pozzo profondo. Si fermò un attimo e inspirò a fondo il profumo degli alberi che coprivano l’asfalto e le poche macchine parcheggiate. Poi riprese a camminare e dopo un paio di semafori arrivò alla strada. Era una piccola, stretta, strada senza uscita. La percorse e arrivò in fondo, vicino al muro di antiche pietre che lo chiudeva. Guardò il portone. Spostò lo sguardo sulla finestra della cucina, la luce era accesa, la tenda tirata.

La vide, di spalle, il cespuglio di capelli fuori controllo. Le sue spalle dritte, il movimento delle braccia elegante, felpato. Stava distribuendo i piatti della cena. Chiuse gli occhi e ripensò alla morbidezza della sua pelle, le mani che accarezzavano le scapole, che la stringevano a sé. Lui scosse la testa, si girò, vide un gradino alle sue spalle. Slacciò lo zaino. Lo poggiò per terra. Si sedette sul gradino. Guardò di nuovo verso la finestra. Tastò dentro di sé la sua assenza, una roccia dalle punte aguzze che ferivano e che lasciavano scorrere il suo sangue. Un dolore insopportabile lo trafisse. Si prese la testa fra le mani. E pianse, disperato. Perché quell’assenza non l’avrebbe mai più abbandonato. Ed era un dolore insopportabile.

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Via del Silenzio

Lei arriva trafelata in via del Silenzio. Il cespuglio di capelli corvini, gli occhi scuri. Trema. Apre lo sportello e sale sulla macchina. La guardo, le sorrido, le sfioro la mano che è fredda. Indossa gli occhiali da sole, mi guarda e risponde al mio sorriso. Avvio il motore e parto.

Lei mi indica la strada da seguire. L’asfalto è sconnesso, guido piano con prudenza. Ad un certo punto, all’altezza di uno spiazzo coperto dalle foglie di alti e larghi platani, lei si piega in giù. Vedo due uomini che parlano davanti ad un cancello.

Si nasconde alla vista del marito. Si rialza di scatto, trema più di prima.

Lei sta male, le scivolano le lacrime. Le stringo la mano, senza parole.

Più avanti fermo la macchina. Spengo il motore. Siamo in zona esposta, mi dice. Le sorrido. Le dico: tranquilla, metti le gambe su di me. Ma. Dammi le tue gambe.

Si toglie le scarpe e le allunga sulle mie. Avverto il suo calore sulla stoffa dei pantaloni. Percepisco anche il tremore, ora rallentato. Le accarezzo. Sono lisce e lucide per la crema. Premo sui pori. Le punte depilate dei peli. Sorrido. Lei mi guarda dubbiosa. Le prendo i piedi tra le mani e li accarezzo, lentamente.

Lei continua a guardarmi. L’ansia sta scivolando via dagli occhi, segue la sbavatura del trucco leggero. I piedi sono piccoli, la pianta del piede è scheggiata dal camminare. Con la punta delle dita liscio le piccole pieghe, accarezzo il collo, le dita minuscole con le unghie laccate di glicine. Li bacio. Lei ora sorride.

Ma la paura è ancora lì. La sua postura è contratta. Con le mani salgo sulle ginocchia, percorro le cicatrici eredità del suo essere bambina. Risalgo le cosce, mi soffermo sui muscoli, li massaggio, sento che si sciolgono, la gonna nera è ricaduta sulle mie mani. Sento il pizzo degli slip, vado oltre. Arrivo sulla pancia, scatta sotto le mie carezze. Mi fermo e la guardo. Lei annuisce, non parla. Mi perdo nei suoi occhi scuri e profondi, sono due pozze in cui perdermi e ritrovarmi è facile.

Riprendo a massaggiare, chiudo gli occhi e inspiro premendo con le mani. Lei finalmente piega la testa all’indietro, sorride di nuovo. I muscoli si ammorbidiscono. La tensione passa nei palmi delle mie mani. La guardo, gli occhi sono aperti, le pupille dilatate.

Mi prende la mano e la porta sugli slip. “Ora portami con te”. La mano si fa strada sotto il pizzo.

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La goccia che scava

Il futuro è una goccia di torrente
Conosco dove è nata
Immagino come scivolerà
Non saprò dove cadrà.
Il presente ha il colore dei tuoi occhi
Conosco come mi guardano
Immagino cosa pensano
Non saprò dove, un giorno, guarderanno.
Il passato è un sentiero nel bosco
Conosco dove ho iniziato a camminare
Sono stato attento a seguirne il percorso
Tra alberi, prati, passeri e fiori pervinca
Dietro un largo tronco scuro
La punta concava della goccia
Si allarga ed è pronta, come il cuore,
A scivolare per sempre nelle tue braccia,

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Arriverà quel momento

Il tuo sorriso è di menta
Lo sguardo di spezie orientali
Le guance sono mascelle strette e impaurite
Le labbra hanno il profumo della notte stellata
La lingua il dolce succo del Kumcat
Il sesso il sale del mare sconfinato
Le tue mani disegnano onde verdi
Il passo è il salto allegro del daino
Le tue parole sono olio balsamico
Io sono la spugna che ti assorbe
Sono le mani che stringono il lampo
E hanno le ustioni che accendono
Infuocano l’aria pigra del mattino
Il nostro tempo arranca lento e legnoso
L’attesa profuma di pane caldo
Arriverà quel momento
In cui io stringerò l’olio balsamico
Inspirerò il profumo della menta
Mi perderò nelle spezie orientali
Scioglierò la stretta delle mascelle
Assaggerò il dolce aroma del Kumcat
E mi tufferò nelle onde del tuo mare.
Sì, arriverà quel momento

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L’alba attesa

Sfioro la pelle candida
Bacio le rosse efelidi
Rorida attendi l’amore
Inarchi la schiena
Penetro il tuo corpo
La lingua è nella mia bocca
Umori si mescolano
Calore e gambe si intrecciano
Si uniscono due vite
Distanti e dolorose
Gli occhi sono aperti
Si cercano e sorridono
Sono tristi e accecati.
Nelle nostre orecchie
Il battito lento di un bastone,
Sposta le foglie secche
Sfiora i frutti rossi e i funghi bianchi
Accarezza i tronchi scuri e nodosi
Sì, siamo nel bosco profondo
Tra le querce e gli abeti
Tra lo scuro e il silenzio
La valle morbida e arrotondata
Si apre ai nostri occhi.
Le mani sono unite e strette
Il passo è all’unisono
La nuova casa ci aspetta
Tra il sole, le nuvole e la bruma
Nell’alba attesa del nuovo giorno.

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Il giorno che verrà

Come il piccolo fiore giallo
Allarga la crepa nel cemento
E gagliardo si offre al sole,
La tua voce calda e rasposa
Entra nelle ferite aperte
E semina un minuscolo germoglio.
Quando il sole tramonta
E la luce da gialla diviene viola
il tuo sorriso si apre al rosso.
Le sapienti mani levigano
Accarezzano, annaffiano, levano
Il cuore spaccato loro consolano.
Nell’arancio che da pesca è cobalto
Il verde germoglio amato e accudito
Si apre allegro al giorno che verrà.

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